5+1 passi falsi nella creazione di una nuova rivista

Negli ultimi anni stanno nascendo molte nuove riviste scientifiche – perlopiù ad accesso aperto.

Non so se questo sia un merito dell’open access e dei minori vincoli e maggiori opportunità che offre ai ricercatori, o se sia piuttosto un esclusivo segno dell’impazzimento del meccanismo di pubblicazione e valutazione (il publish or perish, insomma).

So però – per esperienza diretta – che queste iniziative tendono ad esser fragili e che risentono spesso dell’assenza di un vero ruolo dell’editore (che talvolta è di fatto assente). Vorrei provare a mettere in fila alcuni dei tipici errori che può commettere una redazione alle prime armi, specie se non può godere del supporto di un editore.1

0. partire senza un progetto

È l’errore madre. Non significa che vi siano redazioni così sprovviste da non avere davvero un progetto, piuttosto significa che aprire una nuova rivista scientifica ad accesso aperto implica una serie di problemi, competenze e sfide che richiedono una buona dose di pianificazione.

Non sono solo la conseguenza dell’essere progetti editoriali, scientifici, online, con le peculiarità dell’accesso aperto; basterebbe. Il punto è che l’open access e l’editoria scientifica sono una realtà in continua trasformazione, e una rivista è una pubblicazione periodica e non conclusiva, quindi in fase di progettazione bisognerebbe pensare a una iniziativa in grado di superare il proprio decennio.

1. partire senza un budget

Con l’open access i costi di pubblicazione non scompaiono magicamente!
Possono ridursi (dipende anche dalla qualità che vi prefissate), possono essere coperti in maniera rilevante dal vostro servizio di pubblicazione di Ateneo (se vi va bene e se sopravvive) e soprattutto vengono nascosti dietro ad abbondante manodopera gratuita o quasi.

Un progetto serio dovrebbe sempre prevedere dei fondi, perché se dominio, hosting e mantenimento della piattaforma online potrebbero essere pagati da altri, vorrete comunque avere la possibilità di dedicare risorse per attività che garantiscano una buona qualità della rivista, ad esempio:

Credo siano le tre prestazioni fisse più importanti, che purtroppo spesso vengono semplicemente saltate (il proofreading in lingua inglese) o affidate a qualche dottorando, assegnista o altro sottoposto, accontentandosi di ciò che viene finché dura la manodopera gratuita.

2. partire senza una squadra

Sembrerò eccessivamente polemico, ma una squadra di collaboratori non equivale a «due dottorandi da usare come manodopera». È necessario che il gruppo di lavoro abbia le forze (e competenze) sufficienti per coprire tanto il lavoro relativo alla peer review (che non si limita a distribuire gli articoli ai revisori), quanto la fase successiva di revisione editoriale, impaginazione, pubblicazione. Questo lavoro include competenze di vario genere, non solo relative all’ambito scientifico della rivista, e soprattutto richiede un presidio redazionale la cui assenza si nota facilmente (tra mail evase dopo varie settimane e ritardi cronici nelle pubblicazioni).

Parlo poi di «squadra» perché la formazione delle competenze è preziosa e i vari membri del gruppo andrebbero coinvolti e valorizzati. Aldilà dell’aspetto etico non è neppure conveniente ritrovarsi con improvvise defezioni: compromettere il buon lavoro di anni è sempre una sconfitta.

3. non suddividersi i compiti

La suddivisione di ruoli e competenze (e la definizione in un processo decisionale) ritengo sia un tassello fondamentale per evitare situazioni spiacevoli.

Se avete la fortuna di partire con un gruppo nutrito, è fondamentale definire prima chi si occupa di cosa e come si raggiunge una decisione (e quando una decisione è fissata). L’avvio di una rivista è una fase che assorbe molto tempo e lavoro, è quindi fondamentale non rischiare di perderne per confusione, anche perché una volta avviata la rivista bisogna ancora avere le forze per… il lavoro vero.

Ancora: i compiti sono tanti ed è importante – anche per la valorizzazione delle persone di cui ho parlato – evitare incertezze e carichi di lavoro imprevisti, che a loro volta generano frustrazione.

4. sbagliare il titolo

Può sembrare un rischio improbabile ma capita e possono essere dolori (tardivi). Innanzitutto il titolo è il primo biglietto da visita della rivista, quindi è importante dedicarci la giusta attenzione. In secondo luogo il titolo è un elemento che – una volta scelto – può essere cambiato con costi molto elevati. Sono infine possibili molti errori.

Procediamo con ordine:
il titolo è l’elemento identificativo della rivista ed essendo associato al codice ISSN implica che un suo cambiamento successivo determina, da un punto di vista biblioteconomico, la nascita di una nuova rivista. Cambiare il titolo significa quindi lasciarsi indietro la classificazione ANVUR, l’ammissione in Scopus etc.

Il titolo deve inoltre essere unico: non affidatevi a titoli già esistenti nella letteratura scientifica mondiale e per farvi una idea controllate sempre la lista di Sources in Scopus. Non saranno giustamente ammesse riviste in Scopus se esistono già nel database riviste omonime.

Già che ci siamo dedichiamo un pensiero ai motori di ricerca: è come minimo un azzardo scegliere come titolo una parola o espressione comune e di ampio uso; nella migliore delle ipotesi farete impazzire quei lettori che vi cercando chiedendo ogni volta a Google.

Una possibilità, se non si è convinti del titolo, è affidarsi a un complemento del titolo che aiuti a spiegare e fare chiarezza: il complemento del titolo non è parte integrante del titolo – non cambia ISSN al cambio del complemento – e garantisce quindi un po’ più di flessibilità. È una buona idea per esempio affidarsi al complemento per fornire un inciso in inglese se il titolo è in italiano. Per aggiungere il complemento affidatevi al trattino – come separatore.

Altro errore frequente è il rilievo grafico che si da al titolo: deve essere l’elemento più in rilievo nella homepage del sito, sia per i lettori, sia per chi si ritroverà a catalogare la rivista (per esempio l’assegnazione dell’ISSN).

Infine: pensando al titolo è opportuno pensare anche alla URL della rivista (evitate trattini e URL troppo lunghe), all’acronimo o abbreviazione da utilizzare nell’oggetto delle email e in ogni altra situazione in cui possa fare comodo. E pensate all’indirizzo della casella di redazione cercando di mantenere una coerenza tra i vari elementi.

5. voler strafare

Una volta smaltito il lavoro di avvio della rivista, inizia il lavoro ordinario. Per questo fondamentale motivo è importante non rischiare di arrivare alla fine dell’avvio esauriti e calibrare i lavori sulle forze disponibili e su aspettative realistiche – non solo rispetto alle vostre capacità ma anche sulla base di ciò che potete aspettarvi dalla platea dei ricercatori nel vostro ambito scientifico.

Sull’ultimo punto un errore frequente è quello di programmare subito la rivista su due o più fascicoli annuali; un fascicolo deve contenere almeno 5 articoli scientifici referati (e ipotizziamo che ne siano stati proposti in numero maggiore, con un certo numero respinto), quindi i due limiti di cui tenere conto sono:

Ritengo sia preferibile, all’inizio, valutare un numero inferiore di uscite e poi eventualmente crescere, piuttosto che rischiare di non portare subito a termine i numeri programmati.

Altro errore tipico di una rivista di area umanistica è il multilinguismo: avere una rivista internazionale che pubblica articoli in inglese, italiano, francese, spagnolo e tedesco è molto bello. Meno bello è se ci si pone obiettivi poco realistici come la traduzione dell’intero sito (policy etc), la pubblicazione dei metadati e magari addirittura la traduzione degli articoli nelle varie lingue. Ognuna di queste lingue e di questi ambiti di utilizzo implica abbondante lavoro in più.

In questi casi è molto meglio fare meno ma rifinire i dettagli.


  1. forse si intuisce: ritengo che nell’open access il ruolo dell’editore resti importante; questo nonostante il fatto che i grandi publisher sfruttino il lavoro intellettuale di autori, revisori ed editor offrendo un valore aggiunto non adeguato ai costi di pubblicazione. E nonostante il fatto che un buon numero di editori italiani non sappia lavorare con l’online e/o con l’open access.

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